Nell’ultimo trentennio la Cassazione si è occupata a più riprese dell’assegno divorzile.Con la sentenza n. 11490 del 1990, la Cassazione a Sezioni Unite affermava che l’assegno divorzile ha esclusivamente carattere assistenziale, e che veniva concesso all’ex coniuge che non ha mezzi adeguati per conservare un tenore di vita analogo a quello avuto durante il matrimonio. Per la quantificazione si doveva fare riferimento ad alcuni criteri, ovvero le condizioni dei coniugi, la ragione della decisione, contributo dato alla famiglia, il reddito e la durata del matrimonio.
Successivamente la Cassazione ha poi chiarito che la squilibrio economico fra i coniugi e l’alto reddito di uno di loro non sono da soli elementi decisivi per attribuire e quantificare l’assegno. Occorre infatti provare che il divario fra i coniugi è direttamente causato dalle scelte di vita concordate fra i due; ciò al fine di evitare che, diversamente, possa diventare un “prelievo forzoso”, proporzionale ai redditi (sentenze n. 24932, 24934 e 24934 del 2019).
Quanto alle prove da fornire, la Suprema Corte (ordinanza del 11.10.2021 n. 27561) ha cassato con rinvio la pronuncia della Corte d’Appello, che aveva attribuito l’assegno senza avere analizzato il contributo fornito dall’ex moglie, richiedente, alla vita familiare e alla formazione del patrimonio comune.
E’ pertanto centrale valutare il contributo dato, dal coniuge che lo richiede, durante la vita matrimoniale. L’onere della prova ricade sul coniuge che chiede l’assegno e la prova non può essere presunta, né può essere individuate con sacrifici sul piano lavorativo successivi alla separazione, ma va riferita al perdurare della vita matrimoniale (Cassazione del 07.10.2021 n. 27276).
Il cambio di rotta in ordine all’assegno divorzile è intervenuto con due sentenza, n. 11504 del 2017 e 18287 del 2018, che hanno entrambe valorizzato il principio dell’autoresponsabilità economica di ogni coniuge.
In particolare si afferma che l’assegno viene riconosciuto al coniuge che non ha mezzi adeguati e non è in grado di procurarseli per ragioni oggettive, comparando anche le condizioni economiche delle parti e il contributo dato alla vita familiare.
In particolare la sentenza n. 18287 del 2018 ha spiegato che la valutazione non va fatto tout court perché l’assegno ha sì una funzione assistenziale, ma anche “compensativa e perequativa”.
Occorre pertanto tenere conto del contributo che chi lo chiede ha fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e di quello personale, in relazione alla durata del matrimonio e all’età.
Si riconosce così il ruolo di tutti quegli ex coniugi (spesso le mogli, ma non solo), che hanno rinunciato a una vita professionale per occuparsi a tempo pieno della famiglia e consentire ai propri partner di fare carriera.
Infatti, con l’ordinanza n. 14044 del 21 maggio 2021 la Cassazione ha confermato l’assegno divorzile all’ex moglie rimasta fuori dal mondo del lavoro durante il matrimonio, durato più di dieci anni, per la scelta, condivisa, con l’ex marito, di dedicarsi alla casa; i giudici, tuttavia, hanno rilevato che, in questo caso, l’ex moglie, giovane e in possesso di un diploma di estetista, non è esonerata dal cercare una occupazione che la renda economicamente autonoma.
Quanto alla prova, la Cassazione, con la sentenza n. 27276 (vedi infra), ha ricordato che il contributo alla vita comune del coniuge che “sta a casa”, va dimostrato e l’onere della prova incombe sul coniuge che chiede l’assegno; i criteri fondanti su cui accertare la sussistenza del diritto a percepire l’assegno divorzile, sono costituiti dalla non autosufficienza economica, assieme alla eventuale necessità di compensazione del particolare contributo dato dal coniuge richiedente l’assegno, durante la vita matrimoniale, mentre non rilevano, da soli, lo squilibrio economica tra gli ex coniugi e l’alto reddito dell’altro.